La guerra del latte: polvere di affari

L'organizzazione mondiale della Sanità dell'allattamento al seno va sostenuto e non si possono pubblicizzare prodotti artificiali"... Eppure la gara tra natura e azienda comincia presto... Già in ospedale, appena usciti dalla sala parto

di Paola Zanca

Signora, ma lei… che intenzioni ha?”. È un pomeriggio di metà marzo e in una stanza di una clinica convenzionata di Roma, c’è una neonata che non ha nemmeno compiuto ventiquattr’ore.

  Parto naturale, tutti stanno bene. Eppure questo pediatra di esperienza sente il bisogno di fare una domanda con tono da melodramma.

  La signora in questione, per la verità, nel clima di preoccupazione immotivata è immersa dal momento in cui le hanno tagliato il cordone ombelicale. Ha provato, come da manuale, ad attaccare al seno la sua piccola che ha appena visto la luce.

  E un’infermiera dai modi spicci l’ha allontanata dicendo “non abbiamo tempo da perdere”.
Ha tentato, come si insegna, ad allattarla poche mezz’ore più tardi, sentendosi rispondere che “può stare qui tutta la notte, tanto non le esce niente”.

  E poi, è arrivato quel pediatra, con il tono da fine del mondo, a chiederle cosa pensasse di fare con

quella bambina affamata che ha solo una richiesta: un misurino di Nidina 1, latte in polvere, marca Nestlè.

  Il benvenuto al mondo è scritto nella lettera di dimissioni dall’ospedale. E per ogni donna è opera ardua dover cominciare la lotta contro le lusinghe del mercato appena messo piede fuori dalla sala parto.

  Allattare al seno – lo dicono decenni di letteratura scientifica – fa bene alla salute di madre e figlio, è economico, pratico, sostenibile e riduce pure i costi per la collettività, perché diminuisce il bisogno di cure mediche.

  Eppure, quello che è successo a metà marzo in quella clinica, non è né un’eccezione né una sfortunata casualità: il sostegno all’allattamento materno spesso scarseggia e altrettanto spesso viene consigliata l’alternativa artificiale.

  A dire il vero, dal 1981, ci sarebbe in vigore un “Codice internazionale per la commercializzazione dei sostituti del latte materno” messo a punto dall’Organizzazione mondiale della Sanità. E agli operatori del settore, quel Codice, ricorda che “svolgono un ruolo essenziale nel guidare le pratiche di alimentazione dei lattanti, incoraggiando e facilitando l’allattamento al seno, e fornendo consigli oggettivi e coerenti alle madri ed alle famiglie”.

  Eppure, negli ospedali italiani, sembrano esserselo dimenticato in tanti.

  Lo dice il Report sull’allattamento al seno appena pubblicato dal ministero della Salute (lo illustriamo brevemente qui sopra, ndr): “In molti punti nascita non si applicano o si applicano solo parzialmente o senza particolare successo le modalità organizzative ed i protocolli assistenziali, che invece sono notoriamente facilitanti l’avvio dell’allattamento al seno”.

  Ogni anno l’associazione Ibfam redige un rapporto che illustra nel dettaglio tutti i casi di violazione del Codice dell’Oms.

  Anche per il 2014, per scriverli tutti, ci sono volute 107 pagine.

  Le segnalazioni di lettere di dimissioni con specificata la marca di latte da usare sono vietate dal Codice.
  Eppure le danno a Roma, a Cosenza, a Novara, a Firenze: dappertutto. Recitano la formula di rito:   “L’alimento migliore per ogni bambino è il latte materno (…) In caso di necessità, qualora venisse a mancare il latte materno, si consiglia integrazione con alimento per l’infanzia”.

  E poi ecco il nome del momento: a chi si affida ai consigli della direzione sanitaria farà un certo effetto scoprire che se suo figlio fosse nato un mese prima o un mese dopo, il latte raccomandato sarebbe stato un altro.

  Il meccanismo della “turnazione” funziona così: le aziende, in accordo con le strutture ospedaliere, stabiliscono un calendario annuo.

  A gennaio si usa Milupa, per dire, a febbraio Humana, a marzo Aptamil e così via. Una pratica, dicevamo, vietata dal Codice ma anche da una legge italiana del 2009 e sanzionata più volte dall’Antitrust, visto che le multinazionali fanno cartello e organizzano la turnazione tagliando fuori le aziende minori.

  Spiega il Rapporto Ibfan: “Le principali ditte si spartiscono il privilegio di offrire forniture gratuite o a basso costo di latte artificiale ai reparti maternità, ben consapevoli che durante il periodo in cui viene usato un certo tipo di latte questo sarà anche consigliato alle dimissioni, con un ritorno di pubblicità e vendite che compensa ampiamente l’investimento iniziale”.


  L’ultima inchiesta che ha portato all’arresto di 12 pediatri livornesi è di meno di un mese fa: scoraggiavano l’allattamento materno e suggerivano l’uso di latte artificiale.
Ora sono accusati di corruzione, perché, secondo l’accusa, quei consigli alle neo mamme erano dati in cambio di telefonini, televisori, weekend a Parigi e viaggi a Sharm El Sheik. Gentili omaggi delle aziende farmaceutiche.

“Quelle identificate dall’indagine sono mele marce – tuonò allora il ministro della Salute Beatrice Lorenzin – una macchia per tutti certo, ma il cesto è sano”.

  In mezzo a quel cesto sano, comunque, ci sono anche quelli che non disdegnano i convegni a Bilbao o a Marrakech, quelli che frequentano i campus a Capri: nulla di illegale, se non che dietro a questi eventi internazionali, ovviamente, ci sono tutte le più grandi aziende farmaceutiche e alimentari del settore.

  Al ministro Lorenzin dovrebbe far drizzare le antenne il report appena pubblicato dal Tavolo tecnico a cui abbiamo accennato già sopra.

  Paola Negri, presidente Ibfan Italia, nella riunione di novembre a cui è stata invitata, ha raccontato la sua esperienza di consulente per l’allattamento a Firenze e posto l’attenzione sull’ultima frontiera del business neonatale: i latti di crescita.

  Ultima frontiera Allungare l’età: così sono nati i prodotti “di crescita” Mai sentiti? Sono una trovata degli ultimi 4 – 5 anni e rientrano in pieno nelle strategie di up-ageing che le aziende produttrici stanno sperimentando: perchè limitare al primo anno di vita l’offerta alimentare dedicata ai bambini?

Allungare l’età dei bisogni è la strada maestra per trovare spazio per nuovi profitti.

  Spiega una ricerca commissionata dalla Heinz (la multinazionale della Plasmon, per intenderci) che “la categoria baby food è fondamentale per tutti i distributori perchè permette di fidelizzare i consumatori con uno scontrino medio più alto (+25 per cento) e genera traffico nel punto vendita in ragione della maggiore frequenza di spesa”.

  Anche in questo caso, poco importa che l’Organizzazione mondiale della Sanità abbia ripetutamente bollato i latti di crescita come “inutili”: se si decide di proseguire l’allattamento oltre l’anno di vita, basta il latte materno.

  Altrimenti, si può introdurre il latte vaccino o ricavato da altri cereali (riso, avena e simili).

  Eppure, un buon motivo per affidarsi ai latti di crescita, per la Società italiana di Pediatria c’è: “Rappresentano un’arma in più per prevenire carenze di alcuni micronutrienti. Tali carenze sono frequenti quando i bambini assumono latte vaccino e soprattutto quando ne assumono notevoli quantità, anche per la riduzione dell’appetito che ne può conseguire”. Aggiunge la Sip: “È spesso arduo il passaggio da una alimentazione esclusivamente lattea ad una che comprende anche altri alimenti e non sempre è facile l’adattamento del bambino e della sua famiglia ad una alimentazione variegata e più ricca di nutrienti”. Meno male che ci aiutano Heinz, Nestlé e Danone.

Il Fatto Quotidiano, 23 dicembre 2014,














Nessun commento:

Posta un commento