Le cause e le reali
dimensioni del problema
Prima si è cominciato a
parlare di dislessia, poi è stata la volta della discalculia e poi della disgrafia
e della disortografia. Tutti (ma soprattutto chi ha figli in età scolare) hanno
cominciato ad avere una certa familiarità con questi termini, ma questo non
significa sia facile capire che cosa significhino tutte queste "dis".
E viene anche il sospetto che
ce ne siano troppe e, come le ciliegie, una tiri l’altra. Insomma, possibile
che tutti quelli che una volta venivano etichettati come alunni svogliati
perché non leggevano e non scrivevano in modo corretto e fluente (i classici
bambini che non si "impegnano", come dicevano le maestre) adesso
siano dislessici?
Magari ci sarà anche qualcuno che
semplicemente non ha voglia di studiare…
Respinge con vigore l’idea, o anche solo il
sospetto, di un eccesso di diagnosi Giacomo Stella, professore di Psicologia
clinica alla Facoltà di scienze della Formazione dell’Università di Modena e
Reggio Emilia, uno dei primi in Italia a interessarsi di questi argomenti: «Può
sembrare che il problema dislessia e discalculia sia sovradimensionato, ma questo
accade solo perché ultimamente c’è stata una sovraesposizione mediatica, specie
dopo la legge del 2010, che ha imposto alle scuole precise regole sulle
modalità con cui seguire e valutare chi ha questi problemi. La verità è che non
si fanno abbastanza diagnosi. E posso provarlo con i numeri. In Italia la stima
più prudente ci dice che ha problemi di dislessia o discalculia circa il 3%
della popolazione. Gli studenti tra i 6 e 18 anni, in Emilia Romagna, dove vivo
io, sono 370 mila, dovremmo dunque avere 11 mila dislessici, ma ne sono stati
diagnosticati solo 7 mila. E l’Emilia Romagna è una delle Regioni più attente
al problema».
«Che ci siano differenze nell’attenzione che
le varie Regioni danno al problema è evidente, — rincara la dose
Enrico
Ghidoni, responsabile del Laboratorio neuropsicologico dell’Arcispedale Santa
Maria Nuova di Reggo Emilia — lo dimostra il fatto che, tanto per fare un
esempio, secondo i dati del Miur, il Ministero dell'Istruzione, dell'Università
e della Ricerca, in Val d’Aosta il 3% degli studenti soffre di disturbi
specifici dell’apprendimento (che comprendono tutte le varie "dis"),
mentre la percentuale scende allo 0,2% in Calabria».
Eppure il dubbio resta: l’arrivo della nuova
legge ha anche imposto batterie di test uguali dovunque, non sarà che questi
test sono troppo "difficili" e si finisce con il dare l’etichetta di
"dis" a molti che non lo sono? Insomma il colino che si usa non sarà troppo
fine? «È vero proprio il contrario — riprende Stella —. Gli americani sì che
sono di manica larga, noi invece obbediamo a criteri molto severi. I test che
usiamo sono ben fatti, ben standardizzati. E siamo perfino di manica troppo stretta.
Lo ha riconosciuto lo stesso Iss, l’Istituto superiore di sanità».
Che cosa c’entra l’Iss? «L’Istituto — chiarisce
Stella — ha valutato i risultati raggiunti dalla Consensus conference italiana
che ha radunato tutte le Società scientifiche che si occupano di queste
difficoltà e ha, a sua volta, organizzato una propria Consensus conference.
Scopo: verificare - come si fa spesso - che gli interessi corporativistici di
specialisti che si occupano di un certo problema non li portino a distorcere i
dati. Ebbene, l’Iss, dopo aver rivisto tutta la letteratura scientifica in
materia, ha dichiarato che siamo anche troppo prudenti. Per esempio, noi
escludiamo dalla diagnosi di dislessia chiunque abbia un quoziente intellettivo
inferiore a 85, altrove il limite è di 70. E anche nelle valutazioni
specifiche, relative alla velocità di lettura e agli errori compiuti, parliamo
di dislessia solo in presenza di allontanamenti dalla media delle performance maggiori
rispetto a quello che si fa altrove».
Ma non sarà una scuola sempre più
"accelerata", talvolta rigida nelle sue pretese, nonché la pressione
delle famiglie, a far sì che al minimo problema si pensi a una patologia (perché
tali sono, ricordiamolo, dislessia e discalculia)? «C’è del vero: le famiglie
sono scatenate sulle performance — risponde Stella — e nelle scuole spesso si
vive con angoscia il momento delle terribili prove dell’Invalsi, molto più adatte
a una scuola proceduralizzata come quella tedesca che marcia a quiz, che allo
nostra, che per altro è tra le migliori d’Europa. Ciò nonostante, le diagnosi
fatte riguardano l’1,5 % degli studenti italiani e quindi siamo ben lontani da
quel 3% che dovrebbe rappresentare la media nazionale. Piuttosto io credo che
genitori e insegnanti possano essere "tentati" dal richiedere una
diagnosi di dislessia perché, specie per i primi, è molto più accettabile
vedersi certificare questo tipo di patologia piuttosto che altre. Resta il
fatto che i test sanno ben discriminare tra i diversi problemi».
È ormai certo che dislessia e discalculia
siano di origine genetica? Non potrebbero nascere da difficoltà psicologiche?
«La natura genetica è accertata da moltissimi studi, mi stupisco che si possa
ancora metterla in dubbio. Quanto ai problemi psicologici, non sono la causa ma
una conseguenza. E vorrei ben vedere: immagini un bambino che ha difficoltà di
cui non capisce bene la natura e che non si riesce del tutto a superare. Come dovrebbe
sentirsi? Se poi, magari, ci aggiungiamo il carico di rimproveri da parte dei
genitori e degli insegnanti non consci del problema, mi stupirei se non ci
fossero difficoltà psicologiche».
Ma non ci sono tecniche di lettura,
"trucchi" che possono aiutare i dislessici a non esserlo più? «La
dislessia — precisa Stella — è una patologia su base neurobiologica. Non si può
andare a correggere un’area del cervello, però si può fare molto altro. Si
possono insegnare tecniche di lettura specifiche. Per esempio, in modo graduale
si fa imparare al bambino a leggere parole prima senza doppie, poi senza
accenti e così via».
Non sembra niente di diverso da quello che si
fa in una qualsiasi scuola elementare…
«Non è così semplice, —
spiega l’esperto — bisogna conoscere bene la struttura della lingua per
graduare le difficoltà. Per questo può essere utile l’intervento temporaneo di
un logopedista. A patto di riuscire a trovarlo, perché con il numero chiuso
nelle Università, di logopedisti (che per altro non sono utili soltanto ai
dislessici, ma a molti altri, per esempio a chi deve imparare di nuovo a
parlare dopo un danno neurochirurgico, o dopo una emiparesi destra, o a chi sta
perdendo la parola per l’Alzheimer) ne vengono diplomati pochi ogni anno. Da noi
diplomiamo soltanto dieci.
Può sembrare che il problema
dislessia e discalculia sia sovradimensionato, ma questo accade soltanto
perché, negli anni più recenti, c’è stata una sovraesposizione mediatica.
Corriere della Sera, 23 settembre 2012, pag,
58
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