Nel 1978, l’anno del brutale assassinio di
Aldo Moro e degli agenti della scorta, ero in servizio al Tribunale per i
minorenni di Roma presieduto dal fratello dello statista, Alfredo Carlo, anche
lui scomparso. Nella qualità di presidente del Collegio Penale, mi occupai di
un processo di omicidio a carico di M.C. che, all’età di 15 anni, aveva ucciso
il padre con un’arma da fuoco. La vittima, tipica espressione del
sottoproletariato urbano, sarebbe piaciuto a Pasolini, che se ne sarebbe
sicuramente interessato se non fosse stato ucciso soltanto un anno prima da un
altro minorenne. Uomo (la vittima) con i suoi pregi (pochi) e con i suoi
difetti (molti), non certamente un mostro. Il processo assurse ad una risonanza
italiana ed internazionale. La «cultura» del tempo, mai sufficientemente
pentita (vero Cancrini?), elesse M.C. a vindice della «battaglia» volta a
demolire l’ultima espressione del principio di autorità, la figura paterna. Il
ragazzo fu definito tra l’altro con queste espressioni: «M.C. uccidendo il
padre ha adempiuto ad un dovere sociale»; «M.C. ha ucciso al posto di tutti
noi». Invettive contro i giudici che avevano osato condannare simile campione,
discesa in campo persino dell’allora Presidente Pertini, minacce allo scrivente
da frange terroristiche.
Perché ricordo tale episodio? Perché, a
distanza di 34 anni, i figli hanno ancora bisogno dei genitori. Negli articoli
precedenti, parlando dei minori, mi è capitato di dire che i giovani non sono
tutti uguali; che pessimismo ed insicurezza sono nel loro Dna e vanno
gradualmente recuperati. L’adolescenza è l’età della contraddizione: la
richiesta di autonomia chiama un bisogno di dipendenza; l’adolescente vuol
sentirsi dire sì ma desidera anche la fermezza del no, perché la sua
insicurezza proviene dall’assenza delle regole; i giovani vivono (e crescono)
in
totale ambivalenza, per cui non sono ammessi giudizi definitivi nei loro
confronti. Se proviamo ad analizzare le patologie del mondo giovanile, troviamo
principalmente i seguenti sintomi: ostilità alle scelte «per sempre»; la
filosofia del tutto e subito; il ripiegamento su se stessi; il rigetto del
sacrificio e della sofferenza; il pensiero debole, circoscritto a questioni di
portata modesta; l’etica relativizzata se non addirittura personalizzata. A chi
tocca allora accompagnarli su un percorso di crescita armonico e formativo? Ai
loro coetanei certamente no. Al cortile che non ha più le caratteristiche di un
tempo? Alla scuola che non è incoraggiata da tempo a proseguire nella sua
missione educativa? Ai servizi sociali, quasi sempre invocati da chi è alla
ricerca di sostituti cui delegare? Alle baby sitter? La mia risposta è una
sola. I genitori servono ancora! I bambini di oggi sembra sappiano tante cose e
le sanno, ma sotto il bambino tecnologico c’è quello eterno che non può vivere
senza l’affetto e l’amore di qualcuno (Mario Lodi, maestro). Il gruppo, il
codice genetico, l’ambiente hanno certamente il loro influsso, ma non si è
ancora trovata una strategia migliore per educare un uomo che una coppia di
bravi genitori!.
*Presidente emerito del
Tribunale di Tivoli.
Libero, a 5 agosto 2012, pag, 18
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