Il caos nato da una sentenza. Poi ribaltata

Austria

di Ilaria Nava

  “Austrian Artificial Procreation Act»: la legge austriaca sulla fecondazione artificiale è stata esaminata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La sentenza di primo grado, cui fanno riferimento i ricorsi italiani, ha giudicato illegittimo il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla norma, con riferimento agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che prevedono il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il divieto di discriminazione. L’aspetto contestato della legge austriaca riguarda il divieto generale di eterologa, ammessa solo in casi eccezionali e solo in vivo, ossia quando la fecondazione avviene all’interno del corpo della donna e quindi con il solo gamete maschile esterno alla coppia, mentre è vietata in vitro.

  Lo Stato austriaco, come parte coinvolta, ha poi impugnato la sentenza davanti alla Grande Chambre, organo d’appello della Corte europea che ha annullato la decisione il 3 novembre 2011. La motivazione sottolinea la legittimità delle diverse scelte adottate in ciascun Paese. Inoltre, la Corte ha evidenziato i rischi per lo sviluppo dell’identità e della personalità del bambino, escludendo che si possa ipotizzare l’esistenza di un diritto all’eterologa nella Convenzione europea.


   La Corte Costituzionale – specifica Filippo Vari, ordinario di Diritto costituzionale all’Università europea di Roma – ritiene che la legge italiana che non rispetta la Cedu, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, è incostituzionale. Questa giurisprudenza, pur condivisibile, sembrerebbe richiedere ulteriori svolgimenti. Essa,

infatti, ha conseguenze estremamente utili nel momento in cui si tratta di sentenze della corte di Strasburgo che condannano l’Italia. Diversamente, quando si tratta di decisioni della Corte di Strasburgo che hanno a oggetto Paesi diversi dall’Italia con normative diverse da quella italiana, sorgono alcuni problemi. Assistiamo con sempre maggiore frequenza a giudici che citano passaggi di decisioni della Corte europea, magari anche non decisivi nei giudizi dinanzi a essa, per trarne conseguenze che stravolgono l’ordinamento italiano. Il giudizio promosso dai singoli dinanzi alla Corte europea, invece, ha un carattere puntuale, specifico, relativo al caso concreto a essa sottoposto e non può essere esteso direttamente a normative di Paesi diversi da quello convenuto in giudizio». (I.N.)

Avvenire, 17 maggio 2012, pag, 2

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