Oggi più di 38 mila e le stime più recenti dicono che aumenta il numero di bambini che nascono affetti dalla sindrome. Questo soprattutto perché si partorisce in età sempre più avanzata. Certo, gli screening prenatali consentono oramai di sapere quasi con certezza se un bimbo sarà Down, ma sempre più donne decidono di portare comunque avanti la gravidanza anche dopo la scoperta. Stime regionali dicono che ormai la media dei nuovi nati down è molto simili a quella degli anni ’70 quando non avvenivano controlli.
Qual è la causa della sindrome di Down e c’è un
fattore ereditario?
La scelta della data 21 marzo non è casuale:
la sindrome di Down, detta anche Trisomia
21, è caratterizzata dalla presenza di un cromosoma in più –tre invece di due –
nella coppia cromosomican.21 all’interno delle cellule. Solo in casi rari la sindrome
può essere trasmessa da genitori non Down e senza figli affetti dalla stessa
sindrome: in Italia si registra un caso ogni 80mila nuovi nati circa. Per i genitori
cha hanno un figlio Down la possibilità di avere un altro bambino con la stessa
sindrome è meno rara: una possibilità su cento. Ma se uno di questi genitori ha
quel “cromosoma 21” in più (circa un caso
su 80) il rischio è invece altissimo. Per questo è importante che i genitori con
un figlio Down si sottopongano ad accurati test genetici.
Qual è
la speranza di vita?
Oggi sicuramente molto più alta che in passato.
Sene l ’75 l’età media era di 21-22 anni, ora le persone Down vivono in media
50 anni e loro aspettativa di vita è di 61 anni. Il problema è che con l’età
crescono anche le malattie perché i 50 anni di un Down equivalgono ai 70 di un
normodotato. In più c’è il rischio della demenza. Che si previene soprattutto
favorendo l’integrazione.
Che
passi avanti sta facendo la ricerca?
Alberto Costa, medico
italo-brasiliano con una cattedra di neurologia all’Università di Denver e una
figlia Down, ha avviato un promettente studio sulla Memantina, una sostanza, già
approvata dalle autorità farmaceutiche statunitensi, che avrebbe la facoltà di
migliorare memoria e capacità cognitive. «Un farmaco – sostiene il professore -
che non vuole cambiare le persone Down, che sono splendide, ma renderle più
autonome».
Come avviene
l’integrazione scolastica?
Meglio che in passato,
quando gli allievi Down e disabili in genere ancora a fine anni ’70 venivano
portati fuori dalla classe per essere seguiti individualmente dall’insegnante
di sostegno. La motivazione era quella di adattarsi meglio ai ritmi di
apprendimento dell’allievo Down, ma così facendo si finiva per ghettizzare i
ragazzi nelle scuole speciali e nelle classi differenziate. Oggi si punta
invece sempre più all’interazione con i coetanei e alla responsabilizzazione degli
insegnanti di ruolo, pur con il supporto di quelli di sostegno. Ma tutti nella
stessa aula. In alcuni casi tuttavia si tende a formare delle sotto- classi
composte anche da alunni senza difficoltà di apprendimento, questo per
consentire un insegnamento più individualizzato. Ma per gli esperti quando la
prassi non è comune a tutta la classe c’è il rischio di tornare alle classi
differenziali.
A
che punto siamo con l’integrazione lavorativa?
Nei primi anni ’70 l’Italia
era all’avanguardia nell’orientamento e nella qualificazione professionale dei
ragazzi Down grazie a progetti di formazione condivisi da genitori e datori di
lavoro, all’inserimento di insegnanti-operatori nelle aziende, agli incentivi
pubblici alla persona e all’impresa. A distanza di 40 anni – denunciano le
associazioni delle persone Down – la situazione è però fortemente differenziata
con una sostanziale assenza di iniziative al Sud.
Gli
ultimi taglia all’assistenza e agli Enti locali hanno inciso negativamente?
«Sicuramente sì» dichiara Sergio Silvestre,
coordinatore nazionale di Coor Down. «Nonostante il Ministero abbia previsto 6
mila insegnanti di sostegno in più, si tratta ancora di forze insufficienti,
anche perché il più delle volte il sostegno è offerto alla classe e non alla
persona». Riguardo la formazione post-scolastica per l’inserimento nel lavoro
«questa nella metà dei casi, soprattutto a sud, è a carico delle associazioni»,
denuncia Silvestre. Così secondo CoorDown la media nazionale degli inserimenti
lavorativi delle persone Down collocabili è solo del 13%. Ma al Nord la media è
molto più alta. A Pordenone addirittura del 90%, «a dimostrazione - continua
Silvestre - che le politiche di integrazione pagano, come dimostrano anche i
tre Down neo-laureati»
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