La storia mai raccontata dei “parti segreti”

Chi sono le madri dei bambini adottati subito dopo la nascita

di Mauro Pianta

  Succede quando una donna, invece di abortire, sceglie di dare alla luce un bambino che sarà poi adottato da una famiglia. Lo chiamano «parto segreto» ed è una possibilità prevista dalla legge: la donna può evitare di riconoscere il bambino lasciandolo nella struttura ospedaliera. Italiane o straniere, con o senza il permesso di soggiorno, le madri naturali hanno diritto a mantenere segreto il proprio nome.

  Un segreto lungo un secolo: secondo la legge italiana, infatti, devono passare cento anni dal parto prima che l’identità della madre possa essere svelata. Sull’atto di nascita verrà scritto: «Nato da donna che non consente di essere nominata».

 Uno al mese

   Nei reparti maternità degli ospedali torinesi accade, in media, una volta al mese. Le cifre, fornite dal Comune, parlano di 14 casi (2 partorienti italiane) nel 2007, 27 nel 2008 (8 italiane), 9 nel 2009 (3 italiane), 12 nel 2010 (7 italiane) e 10 nel 2011 (3 italiane).

  Chi sono queste donne alle quali tocca lo strazio di «abbandonare» un figlio? Che cosa le spinge a compiere un passo così drammatico? La dottoressa Anita Genovese, assistente sociale all’ospedale Sant’Anna, si occupa di loro da più di trent’anni. 

E ha potuto osservare da vicino l’evoluzione del fenomeno.

  In passato

 «Negli Anni Settanta – racconta – avevamo anche cinquanta casi l’anno, poi sono intervenuti fattori quali la legge sull’aborto, la diffusione dell’Aids e il conseguente incremento degli anticoncezionali, e i numeri, nel decennio 1980- 1990, si sono praticamente dimezzati». Se 40 anni fa le partorienti anonime erano per lo più italiane, molto
giovani e immigrate dal meridione, dal 1990 in su è la volta delle straniere, costrette al parto anonimo dalla povertà o dal ricatto di un datore di lavoro che minaccia il licenziamento in caso di gravidanza. Soprattutto quando la lavoratrice è clandestina.

  Chi sono

  L’identikit classico? Romena, separata, quarantenne, con figli da mantenere nella propria terra d’origine, una gravidanza indesiderata dopo una relazione occasionale con un partner che si dilegua. «Cercano – racconta la dottoressa - di nascondere il pancione al datore di lavoro con fasce elastiche, oppure raccontano che il bebè finirà dai nonni in Romania, o che è morto durante il parto. Partoriscono e il giorno dopo sono già al lavoro».

   Diverse, invece, le motivazioni delle italiane. Ci sono le sedicenni alle quali le famiglie pongono un ultimatum: «Se lo tieni, vai fuori di casa…», le studentesse universitarie che non si sentono pronte, le donne con problemi di lavoro. «In ogni caso situazioni in cui la gravidanza non è rifiutata per motivi economici – osserva l’assistente sociale – ma perché “ostacolo” rispetto al proprio progetto di vita». Tutto questo spiega anche il diverso atteggiamento delle partorienti di fronte ai neonati. «Le italiane, in genere, si voltano dall’altra parte: non vogliono guardarlo, né prenderlo in braccio. Le straniere invece cercano di elaborare la separazione: ricordo una ragazza marocchina che ha chiesto perdono al piccolo, un’albanese che lo ha benedetto e una ragazza cinese che non finiva di salutarlo». Qualcuna si è mai pentita? «No, ma è importante dire che quei bambini non sono stati abbandonati: le madri naturali hanno fatto tutto ciò che era nelle loro possibilità».

  La ruota

  In città esiste anche un’altra soluzione per le donne che non vogliono imboccare la strada dell’aborto e proteggere il proprio anonimato. È la «culla per la vita», erede tecnologica (con telecamera incorporata) delle ruote per gli esposti, meccanismi girevoli in legno che nel Medioevo venivano posizionati nei conventi per accogliere i neonati indesiderati. Dal 2007 ne è presente una al Sermig, l’Arsenale della Pace in piazza Borgo Dora 61. Dice Valter Boero, presidente del Movimento per la Vita piemontese che ha voluto l’installazione: «Per fortuna non è stata mai usata, ma viene collaudata periodicamente. Per ora ha valore di “segno”, ma è il simbolo di una possibilità, una via d’uscita per la donna».

10 casi nel 2011

Dieci donne (di cui due italiane) hanno dato in adozione il loro bambino subito dopo averlo partorito. Il numero è in diminuzione: negli Anni Settanta si toccavano i 50 casi l’anno.

Al Sermig la «culla per la vita»

In città esiste anche un’altra soluzione per le donne che non vogliono abortire: è la «culla per la vita», con telecamera incorporata.

 La Stampa, 30 settebre2012, pag, 54

Nessun commento:

Posta un commento