Siamo padri, non mammi

Manuali troppo seri e involontariamente comici distraggono i genitori dalla loro alta missione

di Eduardo Camurri

  Padre di due figlie nichiliste devote alla distruzione di qualunque cosa capiti sotto il loro sguardo livellatore, padre di due figlie che nonostante tutto continuo a definire adorabili e dolcissime (perché sono adorabili e dolcissime), mi sono ridotto a un precoce rimbecillimento. In libreria evito ogni reparto interessante per fiondarmi verso quello più attraente e pericoloso: la puericultura. Rimango in contemplazione estatica dei volumi di nuovi eroi che hanno sostituito gli ormai inutili Spinoza, Manzoni e Stendhal: Tata Lucia, Tata Adriana e Tata May. Le mie belvette (due anni una, sei mesi l’altra) mi hanno ridotto a una polpetta di retorica, sembro una portinaia che ha letto Racine, mi commuovono i tramonti, gli sfoghi della pelle e i parchetti. Questo per spiegare come mai mi è capitato tra le mani un libro di Stefano Zecchi: Dopo l’infinito cosac’è papà? Fare il padre navigando a vista (Mondadori).

  Mi è capitato tra le mani perché sono diventato scemo. E sono diventato scemo perché, a causa delle superiori leggi di natura, quando si diventa genitori il mondo spaventa continuamente, la sorte dei nostri pargoli divini assume il peso di una questione apocalittica. Solo un idiota come me ha avuto per esempio la tentazione di prendere sul serio i consigli di un manuale comico come quello di Gary Greenberg e Jeannie Hayden, Preparati! Guida pratica per neopapà (Giunti) dove, per far sopravvivere la propria specie, gli autori invitano i padri a mettersi a quattro zampe e a gattonare per la casa immaginando tutti i modi possibili con cui i nostri figli potrebbero farsi male, come chiodi sporgenti, monetine sparse, chiusure a scatto pericolose per le dita. Non l’ho fatto, ma solo perché, alla fine, la pigrizia è più forte dell’amore per le figlie, non perché trovassi i consigli irragionevoli.


  Il libro del filosofo Stefano Zecchi è una stazione di questo percorso di abbrutimento. Zecchi dev’essere ossessionato dalla moglie o, più in generale, dalle femmine. È diventato padre da poco e la sua battaglia, la battaglia per la sicurezza del figlio contro i pericoli del mondo, si traduce in una guerra contro le donne che vorrebbero Zecchi più sensibile o, come dice lui stesso, più mammo. È un’immagine abbastanza raccapricciante, ma tenete duro: «C’è (…) un luogo pubblico in cui si riconosce immediatamente il mammo: il supermercato» scrive Zecchi. «È impossibile non identificarlo: lo vedete un po’ curvo spingere faticosamente il carrello della spesa come il condannato ai lavori forzati spinge la carriola piena di pietre che ha appena finito di spaccare con le sue nude mani. Davanti a lui la moglie-madre impettita, sicura di sé, incede con passo ardimentoso (…). Il mammo procede spingendo il carrello pesante, con lo sguardo vago, assente». È vero che spesso le donne sono quegli esseri viventi che si nutrono di verdura cruda e che bevono sangue umano (lo scriveva Saul Bellow) ma è anche vero che la paura porta a trasfigurare la realtà. E Zecchi ha una paura maledetta, una paura che lo obbliga a non trascurare alcun dettaglio in questa sua faticosa battaglia; una paura che, come insegna la propaganda durante la guerra, lo porta a trasformare in trionfo ogni piccola vittoria: «Che sofferenza se mio figlio fosse diventato tifoso di una squadra diversa dalla mia! Delicatamente, fin da piccolissimo, sono riuscito a costruirgli una visione del gioco del calcio in cui la mia squadra è diventata anche la sua. Non è una questione di dettaglio» scrive Zecchi tipo Badoglio.

  Ma Zecchi non è il solo a vivere di spaventi e di entusiasmi di questo tipo. Tralascio l’ultimo libro dell’analista Lella Ravasi Bellocchio che passa in rassegna casi piuttosto pittoreschi di infanticidio (L’amore è un ombra. Perché tutte le madri possono essere terribili, Mondadori), per passare a un volumetto appena uscito per una nuova e bella casa editrice di nome Endemunde: Diletti figli miei; si tratta di cinque lettere di altrettanti aristocratici inglesi del Seicento ai loro figli in partenza per l’Università. È un libro interessante perché mostra il pericolo più grave, quello per il quale bisogna avere una certa sensibilità e che quasi tutti invece rischiano di confondere con la soluzione: cioè cosa possono diventare i nostri figli una volta sopravvissuti agli spigoli di casa o alle madri? Delle persone di buon senso. Questi ex-babies hanno abbandonato l’aspetto più entusiasmante dell’infanzia, il desiderio, spiegava in un suo scritto Giorgio Manganelli, di fare carriera come capo tribù dei pellirosse («morte e decomposizione le hanno accettate il giorno che buttarono via le penne multicolori») e ora sono diventati dei disillusi a cui si parla con la massima serietà della propria casa, delle malattie veneree, della cena di ieri, della gita di domenica, eccetera. I genitori che li vogliono trasformare in persone per bene, in realtà li hanno educati come macchine di discorsi puntigliosi, gretti, corposi e quotidiani.

  Non dico che la pedagogia sia da buttar via, anzi, è una disciplina che sarebbe obbligatorio approfondire. Le figlie mica mi hanno reso scemo del tutto. Qualche tempo fa, per esempio, proprio mentre stavo in contemplazione estatica dinanzi al reparto puericultura delle librerie, ho trovato un libro perfetto: «Se le regole non vengono fatte rispettare con coerenza e costanza dai genitori — leggevo — non è ragionevole aspettarsi che i bambini le seguano con altrettanta coerenza e costanza». Mi sembravano parole meditate e dettate dall’esperienza. Ecco, la soluzione per fronteggiare il pericolo del mondo: dare l’esempio e utilizzare poche regole chiare, secondo l’antica ricetta aristotelica e liberale. Il passo era talmente bello che lo ricopiai su un taccuino. Ma prima di farlo mi accorsi di un fatto curioso. Come mai in copertina c’erano dei cani e, dove leggevo «genitori» c’era invece scritto «capobranco» e dove trovavo «bambini» in realtà era stampato «cani»? Qualche anima superiore aveva preso un libro del più famoso educatore di cani d’America, Cesar Millan, e l’aveva messo tra quelli per i genitori. Un gesto che sintetizzava secoli di fatiche pedagogiche, rendendo vane alcune di quelle esperienze. I figli sono pur sempre animali. E il mondo è un mondo cane.

  Corriere della Sera, 1 luglio 2012, pag, 4

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