Misurare la sofferenza dei bambini


In genere le difficoltà si superano presto ma nel 2-3 per cento dei casi si prolunga per cause serie.

Come valutare correttamente l’intensità ed individuare il trattamento analgesico giusto? I pediatri a convegno

  di Giuseppe Del Bello

 
Strilla, singhiozza, si dispera. E piange. Le lacrime, unico strumento di comunicazione. Dolore e pianto. Ecco il binomio che caratterizza la sofferenza nel bambino e che dà filo da torcere al pediatra. A lui compete interpretare quelle lacrime e capire cosa c’è che non va. Settemila pediatri di famiglia e 5mila visite ambulatoriali: la metà di queste, richieste (ed effettuate) perché il bimbo ha la “bua”. Ma se nella maggioranza dei casi si tratta di patologie facilmente identificabili, c’è almeno un 2-3 per cento di situazioni che riconosce una ragione seria. Nel 20 per cento dei pazienti tra 6 e 12 anni il dolore è conseguenza di cefalee ed emicranie, nel 30 è riconducibile ad addome e apparato muscoloscheletrico.


I dati arrivano dalle giornate di formazione che, organizzate dalla Federazione medici pediatri, presieduta da Giuseppe Mele, si sono svolte a Capri. Qui, l’indagine condotta dal gruppo di studio nazionale sulla terapia del dolore e cure palliative, ha rivelato risultati controversi: il 63% dei pediatri è favorevole al trattamento del dolore ma, paradossalmente, il 42% non dispone di un metodo di rivelazione del dolore, mentre per il 31% degli specialisti il sintomodolore va trattato solo dopo la diagnosi. Insomma, pareri diversi e approcci individuali. Non resta che affidarsi alle varie metodiche di valutazione. Le scale oggi utilizzate si basano sulla descrizione che il bambino-paziente (auto) o un familiare (etero) riesce a fornire del dolore e comprendono, spiega Maria Giugliano, referente nazionale di terapia del dolore per la Fimp e coordinatrice del gruppo di lavoro, «le cosiddette “visivo-analogiche” (vas), le colorimetriche (Eland), le intervallari o scala di Wong Baker (faccette stilizzate che comunicano l’assenza, l’eventuale presenza e l’intensità dello stimolo doloroso), e le autovalutazioni verbali, oltre a interviste e questionari. A queste scale poi, si aggiungono metodi che misurano frequenza cardiaca e respiratoria, sudorazione palmare e riduzione della saturazione transcutanea di ossigeno».

   La scala di Eland si differenzia dalle altre perché ottiene due informazioni: sede e intensità del dolore. In questo caso, il bambino si troverà davanti ad un foglio su cui è disegnata una doppia figura, di fronte e di dietro, che lui dovrà colorare nella sede dove ha male, servendosi di tinte più o meno forti, a seconda dell’intensità. Quelle numeriche sono, invece, scale che da 0 a 100 rivelano assenza di dolore o massima sofferenza: indicate tra 9 e 10 anni, hanno il limite del valore più elevato a rischio interpretativo.

la Repubblica, 30 aprile 2013, pag, 30

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